Contrasti in Africa ancora una volta, e non conta che due individui abbiano la pelle nera o bianca. Ad avere importanza è il contesto socio-politico, culturale, che spinge dei gruppi umani a unirsi o dividersi perché il senso di appartenenza è primariamente un concetto culturale.
Tutto questo, non conta perché, a quanto pare, per molti l’identità che riempie il corpus concettuale di una etnia ha altri contenuti. Hutu e Tutsi si sentono e sono – nella fattiva realtà che loro, o forse altri hanno imposto – diversi.
Gli Hutu e i Tutsi si sentono diversi nella stessa maniera in cui Sassoni e Celti, Franchi e Saraceni, Germani e Slavi si sentivano diversi.
Il Passato coloniale
Per comprendere le ragioni dei contrasti in Africa occorre appellarsi alla storia, quando, sotto Guglielmo I, Ruanda e Burundi, furono messi nella sfera d’influenza dell’Impero Germanico secondo
matrice del Secondo Reich, si potrebbe affermare scevri di un qualsiasi timore di dissenso, che talune popolazioni africane non
avevano ancora esacerbato una causa di divisione etnica così radicata da non poter essere mitigata da dialogo.
Un dialogo che sarebbe dovuto essere incentrato tra tribù o sistemazioni territoriali compiute secondo le modalità utili a non provocare conflitti tribali.
Per quanto tuttavia condannabile l’ambizione germanica di concorrere nello sporco affare coloniale con Regno Unito e Belgio
per ottenere il cosiddetto “posto al sole” (nell’accezione storica-geopolitica di questa formula) è doveroso riconoscere che
non fu certo Wilhelm Friederich di Hohenzollern la peggiore piaga per l’area Rwanda-Urundese (oggi distinta in Ruanda e
Burundi).
Il dramma che preparerà la strada agli attuali contrasti in Africa avvenne dopo, con l’avvicinarsi della Prima Guerra Mondiale; ove l’Impero Germanico, per mezzo della
grande capacità di Von Lettow-Vorbeck resistette, vincendo più volte contro gli assalti dell’Impero Britannico deciso a favorire
il Belgio in terra d’Africa.
Vi furono una serie di battaglie dove il Vorbeck dette prova di eccellenti doti da guerriero e stratega.
Alla fine, tuttavia, complici i mezzi e i numeri inferiori, fu sua maestà ad avere la meglio allorché la forza germanica fu logorata al punto da negoziare – sino a che vi sarebbe stato modo – una dignitosa ritirata.

La potenza coloniale belga (e indirettamente quella britannica) fu di gran lunga maggiormente responsabile – rispetto al
Secondo Reich – dello sfacelo sociale che non trova tutt’oggi soluzione ed è la principale causa dei continui contrasti in Africa.
Il Belgio operò una divisione regionale e manovre sociali che instillarono l’acredine sanguinosa dei gruppi etnici del Rwanda-
Urundi, articolata in sostanza in Hutu e Tutsi; un prodotto che sembra assolutamente confezionato fuori dalla sfera dei Grandi Laghi Africani ma che rappresenta a pieno il clima dei contrasti in Africa.
Secondo metodiche molto spesso care anche al modus operandi francese, i Belgi, con la complicità britannica,
apparecchiarono la tavola sempre in una maniera tale che le divisioni sociali nell’area mai ebbero di che sopirsi; in questo modo le
guide emergenti sarebbero state sempre più deboli, instabili e bisognose dell’aiuto delle potenze europee contro le violente e inevitabili
rivolte, secondo un registro ampiamente prevedibile per i dominatori occidentali, registi esperti di queste malate politiche di supremazia coloniale.
Hutu e Tutsi, contrapposti a mezzo di numerosi conflitti e contrasti in Africa, si erano già formati nel con l’assurgere del Belgio ad impero coloniale sotto Leopoldo II che di cognome faceva Sassonia-Coburgo-Gota.
Si! Avete indovinato,
proprio lo stesso cognome che aveva il casato
reale inglese prima di rinominarsi
nel più carino e meno cacofonico “Windsor”.

Nonostante quindi Hutu e Tutsi furono predisposti al conflitto, per molti versi eterodiretto dalle potenze coloniali europee già
dal 1908 circa, diventeranno famosi in Italia solo in quell’arco di tempo che va dal 1990 al 1994, un segmento in cui la nostra
penisola vide la successione di Andreotti, Amato, Ciampi e il primissimo Berlusconi.
Per poi essere ovviamente dimenticati come un caso di cronaca nera o come una qualche vicenda tra Albano e Romina, nonostante nel 1994 ebbe luogo il noto genocidio in Ruanda, organizzato dagli estremisti Hutu, fazione con un volume di contenuti che è in tutta evidenza
riempito da un corredo socialmente ingegnerizzato e quindi contenente tutte quelle componenti posticce; etniche, psicologiche,
paramilitari, parastatali che evidenziano la differenza tra un movimento “colorato” da uno spontaneo e a tinta unita. Una
differenza tanto siderale quanto lo è quella di personaggi come Wiliam Wallace o Ernesto “Che” Guevara da altri come Gene Sharp.
Tralasciando gli aspetti più noti del Ruanda che vide, dal ’59 al ’62, rovesciare Re Kigeli nella rivoluzione sociale ruandese,
comportando l’ascesa della “contro-elite” Hutu preferita sia dal Belgio che dal Vaticano – per evidenziare quelli – piuttosto
simmetrici – del Burundi potremmo osservare ciò che è avvenuto dopo il rovesciamento di Re Mwambutsa IV che senza
dubbio ampliò il suo potere in maniera significativa una volta ottenuta nel 1962 l’indipendenza dal dominio belga.
Spese tuttavia tale vasto potere per ammorbidire il conflitto etnico e i suoi contorni d’odio in favore di una stabilità. Mwambutsa riuscì
da principio a calmare le tensioni ed abbassare sensibilmente la violenza e i contrasti in Africa costituendo, nel suo partito monarchico, un
Consiglio dei Ministri subordinato ad un bilanciamento equo tra ministri Tutsi e Hutu. Bilanciamento fondamentale per gestire i contrasti in Africa.
Vi era, oltre ogni ragionevole dubbio, la fortissima probabilità che sotto Re Mwambutsa IV (che visse sulla propria pelle sia il
colonialismo tedesco che quello belga) il conflitto etnico sarebbe andato verso l’assoluta fine. Al contrario non si trovano
ragioni del tentativo di colpo di stato ai suoi danni da parte degli estremisti Hutu che comportò una risposta molto violenta di
repressione che delegittimò Re Mwambutsa, sebbene egli abbia lavorato sin dal primo tentativo golpista in direzione della
pace. Furono poi gli stessi militari Tutsi a mettere fine alla monarchia che Mwambutsa aveva lasciato alla gestione del figlio
Ntare V, deposto da Michel Micombero (che in precedenza, agendo a favore della monarchia, aveva represso quale
comandante militare il tentato colpo di stato Hutu) che emerse con il Partito Progressista Nazionale (UPRONA) e proclamò la repubblica.
La strumentalizzazione del conflitto tra Tutsi e Hutu
Personalmente, non ritengo al momento utile prendere una posizione riguardo a Walter Rodney, storico e attivista
anticolonialista guyanese, e al suo ambiguo conflitto con Hugh Shearer in Giamaica. Non ritengo, allo stesso modo, affatto utile trattare
l’omicidio dello stesso Rodney che saltò in aria poco prima di candidarsi in Guyana, a causa di un attacco alla bomba di sicari
tutt’oggi misteriosi, né citare le varie “riots” che questi fatti innescarono finanche a Los Angeles negli anni ’70. Ritengo, al
contrario, invece utile menzionare Rodney e la sua trattazione How Europe Underdeveloped Africa, dove viene denunciata
la fumosa origine Tutsi che secondo qualcuno, e quando dico qualcuno intendo l’apparato colonialista occidentale, sarebbe
quella di migranti dal Nord Africa. Le opinioni e gli studi di Walter Rodney furono argomento abbracciato dal Fronte Patriottico
Ruandese.
La questione sollevata da Walter Rodney negli anni ’70 sul presunto falso storico cucito addosso all’etnia dei Tutsi è alla base
della nostra riflessione e di tutto questo testo. Ciò che viene denunciato in “How Europe Underdeveloped Africa” non può che
condurci alla libera riflessione riguardante ciò che è avvenuto dopo la deposizione di Re Mwambutsa IV, a partire da
Micombero e a seguire per tutti gli anni ’90, dove non si è mai vista una vera de-escalation. I massacri si sono svolti da ambo le
parti, sia in Burundi che in Ruanda e una buona parte della questione può essere ricondotta ad una nociva ingegneria sociale e
psicologica che a modesto avviso del sottoscritto, come parzialmente accennato, è maggiormente appannaggio dell’ingerenza
britannica (con l’ovvia complicità belga).
Studiosi occidentali hanno ipotizzato la diversità delle etnie Tutsi e Hutu, appellandosi a qualche pur riscontrabile differenza
fisica, e abbarbicandosi su qualche acrobatico studio antropologico sulle differenti modalità agricole e di allevamento, su una
nebulosa origine Nordfricana dei Tutsi, senza tenere conto dell’uguale lingua e religione. Sono state imposte ipotesi
impalpabili, evanescenti e dal costituente men che pulviscolare, non diverse da quelle diffuse in altre parti del mondo, come i
cosiddetti “ribelli moderati” come alternativa alla Jihad in Siria e così come molti altri paralogismi sparsi nel mondo e usati
come PSYOPS (acronimo di psychological operations), cioè atti di guerra psicologica.

Si assiste, nell’Afrikan Great Lakes, l’area dei grandi laghi della parte orientale dell’Africa centrale, alla nascita e
coesistenza continua di movimenti e fazioni, molti dei quali eversivi e costantemente in arme, come l’Hutu Power, non
dissimile dalla costola del Black Power dei nuovi Black Panther, fortemente dissociati dai concetti di Stokely Carmichael e di
Martin Luther King, e neanche troppo diversi dagli Antifa oggi inseriti nella lista nera dei terroristi certificati da Donald Trump.

Entità prodotte dall’ingegneria sociale colonialista, movimenti e gruppi protesi all’instabilità, ognuno dei quali, ciascuno a suo
modo, finalizzato ad alimentare quell’organismo composto da secolari falsi miti, radicazioni psicologiche, componenti
parastatali (spesso supportati da associazioni umanitarie di sinistra), paramilitari e criminali, vale a dire tutti gli organuli che
permettono la sopravvivenza della cellula del sub-sviluppo provocato dalla dilagante e nociva azione globalista.
Dai massacri nell’Area dei Great African Lakers all’ascesa e alla morte di Pierre Nkurunziza
Ciò che risulta da tutto ciò sono gli anni di irreparabile massacro nell’area degli African Great Lakes, sottosviluppo e
macelleria sociale seguiti anche oltre rispetto a dove noi oggi ci siamo spinti: ovvero oltre gli anni ’70, dove in alternanza Hutu e
Tutsi hanno subito stragi e genocidi, espressi in ogni forma, finanche la più capillare: dal conflitto etnico nudo e crudo del
genocidio del 1988 degli Hutu, ai dissidi interni, come quello del Partito della Liberazione negli anni ’90. Dall’omicidio di
Melchior Ndadaye (che vinse le elezioni in Burundi nel 1993, mentre la vicina Ruanda era immersa nella guerra civile) al,
precedente di un anno, missile all’elicottero dove viaggiava il leader del Partito Repubblicano J. Habyarimana. Conflitti
sostanzialmente perdurati dagli anni ’90 fino a circa il 2008 , che hanno quindi interessato anche l’elezione a Presidente del
Burundi di Pierre Nkúrunziza nel 2005, ovvero il personaggio deceduto per infarto in questo mese, accadimento all’origine di questa riflessione.
Pierre Nkurunzinza non è certo un profilo lindo e pinto, almeno per quanto riguarda i media occidentali. Fu eletto in forza partito
CNDD-FDD (Consiglio Nazionale dellA Difesa e della Democrazia) nel 2005.
Portò a compimento due mandati, essendo stato eletto per il primo con voto parlamentare, ottenne un
terzo mandato nel 2015 in elezioni vinte con largo consenso che però furono contestate dagli Stati Uniti, Belgio e ONU. Le
elezioni del terzo mandato esasperarono tensioni sociali in parte già esistenti e in parte incoraggiate dall’esterno. Sono molte
le cose che si imputano a Nkurunzinza, una e non unica delle quali è la condanna a morte nel 98 per crimini commessi durante
la militanza ribelle, sentenza poi revocata.
I media occidentali lo hanno spesso dipinto, a farsi alterne, come un sanguinario tiranno con la fissa per il calcio e con
ambizioni monarchiche (quest’ultime due affermazioni sono forse le più condivise) menzionando spesso anche una sua linea di
dialogo con Putin e Jimping. Quel che è certo, è che nei fatti recenti il leader di CNDD si era alacremente posizionato in
quell’area – piaccia o non piaccia – di cui Donald Trump è portavoce globale. Si tratta dell’area, in primo luogo, di fermissima
contrarietà alle imposizioni dell’OMS e alle misure di cautela anti-Covid, ed in secondo luogo all’istanza No-Vax.

Nkurunzinza ha definito il Covid una “grossa bufala” e non usò alcuna contromisura, scegliendo di non imporre né mascherine,
nè distanziamento sociale nè tantomeno il lockdown. Le sue convizioni si riassumono nel clamoroso fatto recente riguardante il
licenziamento in tronco di quattro esperti dell’OMS, come riporta Afrikan Express.
Più “teneri” nel giudicarlo il giorno della sua morte sono stati Simon Allison (The Guardian, Guardian & Mail) che dopo aver
esposto alcune critiche ben inteso, definisce Nkurunzinza un “controverso campione di patriottismo”, così come Samba
Cyuzuzo (corrispondente BBC per l’area Burundi, Ruanda e Tanzania) che lo riassume nella definizione di un leader “amato e temuto in pari misura”.
Rimane oggi il compito dei cronisti di posizionare nella Storia del Burundi questo fatto del 9 Giugno 2020 che, dopo tutto,
essendo una morte di infarto, potrebbe sembrare come uno dei più normali mai trattati a riguardo un leader politico degli
Afrikan Great Lakes. E’ stata diffusa la notizia della sua positività al Covid, anche se il governo ha posto l’infarto come causa di
decesso: una discordanza che non può non far riflettere. Sarà importante, nell’inquadramento storico del decesso di questo
scomodo leader africano, stabilire se sia morto “con” o “per”, in un’area, quella degli African Great Lakers, ancora
caratterizzata da turbolenze e scissioni.
Riferimenti:
W. Rodney, How Europe Undeveloped Africa, Londra, Bogle-L’Ouverture Publications, 1982