Olivetti, l’azienda dal volto umano che conquistò il mondo

Olivetti, l’azienda dal volto umano che conquistò il mondo

 

Il progetto di Adriano Olivetti è straordinariamente attuale, rappresentando un modello di sostenibilità avanzato e globale, oggi si direbbe olistico, perché improntato a una visione trasversale della realtà in azienda dialogando con la collettività e gli ambienti culturali e soprattutto tenendo conto del lavoratore nella sua totalità di individuo. Imponendosi durante il boom economico dell’Italia del Secondo Dopoguerra, dimostrò che il lavoro non può essere slegato dalle esigenze della persona in quanto tale e i risultati mostrarono che produttività e vivibilità dell’azienda possono benissimo andare d’accordo, contribuendo a rendere l’intera società più a misura d’uomo.

 

Gli inizi

La Olivetti S.p.A, inizialmente C. Olivetti & C., fu fondata a Ivrea, in provincia di Torino, nel 1908 come «prima fabbrica nazionale di macchine per scrivere», dall’ingegnere industriale e imprenditore Camillo, che nel 1896 aveva già costituito un’azienda per la costruzione di strumenti elettrici di misura. Nel 1911 iniziò quindi la fabbricazione di macchine da scrivere, che poi divenne il core business dell’azienda accanto agli strumenti di calcolo. Fu Adriano, figlio di Camillo, a far compiere il grande passo all’Olivetti da azienda familiare a moderno gruppo industriale e leader del settore, sviluppando prodotti per l’ufficio innovativi venduti in Italia e all’estero, grazie a un’ampia rete commerciale. Il manager puntò all’eccellenza degli articoli, nella tecnologia e nel design industriale, oltre che al miglioramento delle condizioni dei lavoratori. 

Un giovane Adriano Olivetti
Un giovane Adriano Olivetti

“Percorsi rapidamente, in virtù del privilegio di essere il figlio del principale, una carriera che altri, sebbene più dotati di me, non avrebbero mai percorsa. Imparai i pericoli degli avanzamenti troppo rapidi, l’assurdo delle posizioni provenienti dall’alto”Adriano Olivetti

 

Sognare in grande

Adriano Olivetti fu uno dei più grandi imprenditori del XX secolo. Laureato in ingegneria chimica e con un’esperienza in azienda anche da operaio, raccolse l’eredità del padre con l’obbiettivo di realizzare un rivoluzionario modo di fare impresa. La fabbrica doveva essere un luogo vivibile e culturalmente stimolante. Il primo successo fu la M1, la «macchina da scrivere più veloce», con una pressione dei tasti più rapida e agevole. In dieci anni ne vennero prodotti novecentomila esemplari. In Italia i principali concorrenti erano le aziende tedesche, ma queste vennero superate grazie a una qualità più elevata e a un management portato all’innovazione, non lasciandosi imbrigliare da un atteggiamento ottuso e conservatore della classe politica italiana. Adriano si recò nel 1924 negli Stati Uniti per osservare da vicino il modello industriale americano, visitando la fabbrica di macchine da scrivere della Underwood, senza però riuscire a farsi concedere un appuntamento con il suo proprietario. Importante per lui fu anche osservare gli stabilimenti della Ford di Detroit dove apprese un nuovo modo di organizzare il lavoro. Il punto focale per sorpassare la concorrenza era migliorare la produttività e Olivetti mostrò come farlo elaborando quanto appreso riguardo la pianificazione delle attività industriali, attraverso una revisione dell’assemblaggio e la rotazione dei dipendenti. La Divisumma 14 fu il primo grande successo targato Olivetti, capace di migliorare le prestazioni dei competitor d’oltreoceano e di ritagliarsi un posto nella cultura pop dell’epoca. L’azienda torinese nel 1955 vinse il Compasso d’Oro, il più antico premio per il design industriale al mondo, per la linea innovativa dei suoi prodotti. Vennero lanciati modelli di macchine per scrivere che all’epoca entrarono nell’immaginario collettivo, come la Lexicon 80 (1948) e la Lettera 22 (1950), la quale venne celebrata dall’esposizione al MoMa di New York.

Divisumma 14
Divisumma 14

 

Un’azienda a misura d’uomo

Nella filosofia di Adriano Olivetti l’attività di un’impresa non doveva assicurare solo buoni profitti, ma anche realizzare lo sviluppo sociale, culturale e umano di chi ci lavorava, rispettando ogni individualità, talento e aspirazione. Dall’applicazione concreta e fattuale di questo nobile principio vide la luce un’esperienza aziendale unica al mondo: l’intento era quello di creare un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto, creando le condizioni di benessere materiale e spirituale per il lavoratore e dimostrando che tutto questo può essere non soltanto un bello slogan ma una realtà concreta da costruire giorno per giorno.

«Se mi posso permettere, spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande». Adriano Olivetti

Non c’era quindi solo attenzione alla produttività ma anche a altri aspetti. Tra questi merita attenzione particolare la cura dell’urbanistica, volta a rendere più armonico il rapporto tra città e campagna. Vennero costruiti sei complessi abitativi vicino alla fabbrica, comprensivi di orti per permettere ai dipendenti di rendersi autosufficienti in caso di perdita del lavoro. Questi conglomerati di abitazioni vennero chiamati i “Villaggi Olivetti”. Secondo tale visione il progresso si basava non solo sulle aziende ma anche su chi viveva e lavorava al loro interno. Anche lo spazio delle strutture doveva essere modellato sull’esigenza di rendere il posto vivibile partendo dalla cura degli spazi fisici secondo i principi di ordine e armonia. Olivetti infatti era contrario al taylorismo, cioè a un approccio basato su un’asettica organizzazione scientifica dell’occupazione negli stabilimenti. L’aver sperimentato in prima persona il duro lavoro di fabbrica lo aiutò a comprendere le esigenze quotidiane degli operai. Lo sviluppo della Olivetti andava di pari passo con quello della città di Ivrea: lo spazio lavorativo doveva coniugarsi con quello del resto della vita per migliorare le condizioni del dipendente. Si sviluppò così la città industriale, un insieme di edifici destinati alla produzione e ai lavoratori: uffici, abitazioni, mense e asili progettati da grandi architetti. Il complesso urbano che vide la luce in quel periodo nel 2018 venne riconosciuto Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO «per la moderna visione della relazione tra industria e architettura».

 

Locandina Olivetti di un negozio monomarca del 1966
Locandina Olivetti di un negozio monomarca del 1966

 

 

L’idea di comunità nel contesto lavorativo

Con Adriano Olivetti arriva soprattutto una nuova visione di impresa, basata sull’organizzazione decentrata del personale e sulla razionalizzazione dei tempi e dei metodi di montaggio. L’industriale di Ivrea fu un precursore del moderno welfare, mirando alla ricerca di un equilibrio tra profitto, benessere individuale e giustizia sociale.  Durante il suo esilio in Svizzera tra il 1944 e il 1945 descrisse la sua idea di sistema di comunità solidale all’interno di uno Stato socialista e federalista nella sua opera-manifesto L’ordine politico delle Comunità. Gli operai dell’Olivetti godevano di salari superiori alla media, beneficiavano di convenzioni per case e asili accanto alla fabbrica, avevano a disposizione una biblioteca in azienda con libri da poter leggere durante le pause perché per Olivetti «i servizi sono un dovere che deriva dalla responsabilità sociale dell’azienda». La vita nella fabbrica Olivetti era diversa da qualsiasi altra realtà italiana, con un’organizzazione del lavoro che comprendeva un’idea di felicità collettiva mirata a creare efficienza ed entusiasmo nei lavoratori. Adriano Olivetti aveva infatti definito un completo sistema di servizi sociali per i dipendenti, che comprendeva appunto quartieri residenziali, ambulatori medici, asili, mense, biblioteca e cinema gratuiti, convenzioni aperte con diverse attività. Costituiva un aspetto di rottura con la tradizione l’assenza di divisione netta tra operai e ingegneri, inoltre l’imprenditore si era impegnato a ridurre le ore della giornata lavorativa mantenendo invariato il salario. L’azienda non era solo un luogo di produzione ma uno spazio culturale e sociale vivo che, tenendo convegni e incontri, raccoglieva anche artisti, scrittori, disegnatori e poeti: si riteneva che la fabbrica avesse anche bisogno un un’apertura verso realtà esterne coinvolgendo  persone che con il valore aggiunto della loro presenze e del loro ingegno, anche in ambiti differenti, erano in grado di arricchire il lavoro apportando creatività e sensibilità. Tutto ciò portò ad un consistente aumento della produttività e della qualità del lavoro. Alla base di tutto c’è l’idea di comunità, che per il dirigente piemontese era l’unica via da seguire per superare la separazione tra i membri della società e tra produzione e cultura: nello scambio e nella coesione doveva alimentarsi un equilibrio dinamico e osmotico tra le componenti della società a cui l’impresa doveva aprirsi. La sua idea andava verso la creazione di una fondazione che potesse riunire azionisti, enti pubblici, università e rappresentanze dei lavoratori, in modo da eliminare qualsiasi tipo di rigida separazione precostituita tra gli attori della società, per considerare l’idea di comunità come obiettivo comune. Proprio per questo, in virtù anche delle sue esperienze personali, Adriano Olivetti rifiutava un’impostazione classista e considerava qualsiasi tipo di lavoro come fondamentale, a partire da quello dell’operaio, affermando che «il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva o non giovi a un nobile scopo». Questo periodo di forti innovazioni sociali ebbe il riscontro di i risultati eclatanti sul mercato: venne lanciata la T1, la prima telescrivente sul mercato italiano, integrando telegrafo con macchina da scrivere. Il successo economico era quindi visto come era un mezzo per una nuova politica sociale e nel 1947 Adriano fondò a Torino un partito, il Movimento Comunità. La cultura aveva un ruolo fondamentale in questo modello: vennero proposti eventi, corsi serali, conferenze e proiezioni cinematografiche. Esiste un legame tra ignoranza e alienazione lavoratori, per questo volle appunto promuovere questo tipo di iniziative e tenere gli stipendi erano più alti rispetto alla concorrenza diminuendo parallelamente le ore di lavoro: dati alla mano con più tempo libero e di maggiore qualità aumentava concentrazione sul lavoro e quindi la produttività dei dipendenti. I fondi erano indirizzati primariamente verso gli investimenti per l’azienda, poi per i servizi sociali e solo dopo per gli azionisti. Per avere a disposizione punti di vista diversi sulle cose Olivetti assumeva sia dipendenti dalla preparazione tecnico-scientifica che umanisti, garantendo una visione d’insieme sul lavoro. La già citata Lettera 22 era una macchina da scrivere meccanica agile e pratica, che guadagnò popolarità tra scrittori e giornalisti, divenendo all’epoca un simbolo proprio per chi lavorava nel settore della cultura. Questo sforzo innovativo si sposava con la costanza e la competitività: la Olivetti riuscì a mantenere un impressionante ritmo lanciando sul mercato un nuovo prodotto ogni otto mesi. 

Lettera 22

 

L’affermazione a livello mondiale

L’azienda si espanse anche fuori i confini nazionali, arrivando in  Argentina, Belgio e Regno Unito, dominando così anche il mercato britannico. Olivetti diventò poi la prima azienda europea nel settore, occupando il 10% delle esportazioni mondiali. I prodotti della Olivetti comparirono nelle vetrine dei negozi della Fifth Avenue di New York, suscitando l’attenzione del Presidente dell’IBM Thomas John Watson, che ne rimase particolarmente colpito. Anche la Underwood, azienda produttrice di macchine da scrivere, venne incuriosita dai sui successi e dalla sua carica innovativa. Questa versava in difficoltà mentre Olivetti voleva rafforzare la sua posizione nel mercato americano. Venne stipulato un accordo tra Underwood e Olivetti che stabiliva che i prodotti dovevano esibire la scritta “Made in Italy”. Da qui nacque successivamente la Olivetti Corporation of America: mai era successo prima che un’azienda italiana acquisisse un’altra azienda nordamericana. Nel 1959 il Governo statunitense tentò di affossare l’acquisizione dell’impresa italiana promuovendo una causa in base alla normativa antitrust. Un’instancabile sete di ricerca e di sperimentazione portò l’azienda a perseguire un’innovazione continua tracciando nuove strade precedentemente impensate. Olivetti ebbe infatti la grande lungimiranza di intuire le notevoli potenzialità nello sviluppo dell’elettronica e  da un incontro con Enrico Fermi nacque un laboratorio di ricerca che divenne uno dei più importanti d’Europa in un’epoca in informatica ancora non esisteva. Ebbe la capacità di scegliere i collaboratori più adatti per i traguardi che si prefiggeva di raggiungere. Su suggerimento del primogenito Roberto assunse Mario Tchou, figlio di un diplomatico in servizio presso l’ambasciata della Cina in Vaticano e professore di ingegneria elettronica alla Columbia University, con l’obbiettivo di progettare la costruzione di un primo calcolatore elettronico.

Mario Tchou

Il progetto vide la luce e il prodotto venne chiamato Macchina Zero o Elea 9001, in riferimento alla scuola filosofica della Magna Grecia. Queste innovazioni fecero entrare l’azienda italiana in contrasto con la statunitense IBM, che vedeva minacciata la sua posizione di spicco e che dal 1940 era diventata un ramo dell’industria militare nazionale in chiave antirussa. Olivetti invece voleva solo lavorare per l’uso civile, pensando già alla realizzazione di computer di uso domestico, quelli che saranno poi i chiamati personal computer.

 

Ultimi grandi traguardi e tragico declino

L’azienda piemontese costruiva in proprio assemblando pezzi da altrove. I transistor erano stati individuati come la soluzione per compiere un decisivo salto in avanti ma all’epoca non abbastanza sviluppati: occorreva implementare nuove soluzioni, con questo obbiettivo nacque così una collaborazione con l’Università di Pisa.  Il pioniere Franco Filippazzi e il suo gruppo di sviluppatori della divisione elettronica nel quartiere Barbaricina di Pisa, chiamati poi “i Ragazzi della Barbaricina”, progettarono Elea 9003, che fu non solo il primo computer italiano ma anche il primo computer a transistor della Storia. Lo Stato non sosteneva lo sviluppo dell’azienda con finanziamenti, disinteressandosi alla sua portata innovativa, così nel 1959 Olivetti si guardò intorno cercando finanziatori al di là della Cortina di Ferro. Tchou contattò l’Ambasciata cinese che aveva avviato studi sui computer. Fa sospettare la presenza di una pista di spionaggio industriale il fatto che un primo modello di Elea 9003 inviato a Roma non venne mai consegnato e pochi anni dopo un calcolatore simile comparve in America. Nel 1960 Olivetti morì improvvisamente a causa di un’emorragia celebrale che lo colpì mentre stava viaggiando in treno verso la Svizzera. Solo successivamente  emerse che la CIA stava spiando da almeno dieci anni l’industriale italiano. A distanza di un anno Mario Tchou perse la vita  in seguito a un incidente stradale. Nell’arco di un solo anno la Olivetti si trovò privata delle sue due menti più geniali nonché dei principali artefici del suo successo su scala mondiale. L’ingegnere italiano di origine cinese stava lavorando a un progetto, del cui concetto, come visto, Olivetti aveva già avuto l’intuizione, che vide poi la luce grazie al lavoro di Vincenzo Perotto: costruire una macchina per elaborare dati capace di offrire autonomia funzionale, caratterizzata da dimensioni ridotte per stare in ogni ufficio, programmabile, provvista di memoria, flessibile e semplice da usare. Perotto coordinò un ristretto gruppo di collaboratori il cui frutto del lavoro fu la P101,  detta “Perottina”.  Si trattò del primo computer da scrivania al mondo, utilizzato anche  dalla NASA nella missione Apollo. 

Il gruppo di lavoro italiano che inventò il PC
Il gruppo di lavoro italiano che inventò il PC

L’Italia nel 1960 era il Paese con le tecnologie informatiche più avanzate in Occidente. Forse si punirono i contatti tra l’Olivetti e blocco sovietico mentre è certo che questa azienda italiana fosse guardata con invidia dai diretti avversari statunitensi sul mercato informatico. La Olivetti trovandosi così senza guida entrò in crisi e  i titoli in Borsa crollarono. L’impresa italiana cadde in gravi difficoltà economiche, così Roberto Olivetti cercò una disperata via d’uscita permettendo l’ingresso del Gruppo di Intervento creato dalla FIAT, la quale non vedeva bene la società di Ivrea, forse perché contraria alla diffusione dell’innovativo modello aziendale e culturale che promuoveva. Si decise la chiusura della divisione elettronica, giudicata inopinatamente una sfida futuristica senza prospettive, mentre gli sviluppi che il settore ebbe già poco tempo dopo dimostrarono l’assurdità della decisione. Il 75% delle quote aziendali venne ceduto alla General Electric: fu la fine dell’Olivetti come grande attore dell’industria internazionale. Si trattò nientemeno di una a svendita tra connazionali a un concorrente straniero. L’Olivetti è stata assorbita dal gruppo TIM e si occupa di Big Data e del settore IoT (Internet delle Cose), lo sviluppo di oggetti fisici dotati sensori, software e altre tecnologie integrate con il fine di connettersi e scambiare dati con altri dispositivi e sistemi presenti nella rete.

Il lascito di Adriano Olivetti

Della grande azienda che fu pioniera nel mondo nel settore dell’informativa resta non solo il grande impulso dato allo sviluppo delle tecnologie elettroniche e informatiche ma soprattutto lo straordinario esempio di un modello aziendale capace di coniugare la competitività sul mercato a un progetto su larga scala che si prefiggeva di garantire il benessere del lavoratore e l’arricchimento materiale e spirituale della sua comunità di appartenenza. Sviluppo e progresso andavano di pari passo con questa azienda così brillante e così innovativa, proprio come si auspicava lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini. Come Maria Montessori per la scuola e l’istruzione, Olivetti creò una concezione aziendale che viene presa a modello d’ispirazione all’estero nei Paesi più avanzati ma accantonata in Italia. Olivetti con il suo coraggio e il suo operato continua comunque a dimostrare che una società più equa, sana e felice è possibile.

Adriano Olivetti 1

 

Riferimenti

https://www.fondazioneadrianolivetti.it/la-fondazione/adriano-olivetti/

https://www.storiaolivetti.it/tema/storia-aziendale

https://www.dealogando.com/imprenditoria/adriano-olivetti-chi-e-limprenditore-che-ha-fondato-la-prima-azienda-di-macchine-da-scrivere/

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David Sciuga

Si è laureato con lode prima in Lettere Moderne poi in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi della Tuscia. Successivamente ha conseguito il Master di II livello in Management presso la Bologna Business School. La sua tesi di laurea magistrale “La critica della civiltà dei consumi nell’ideologia di Pier Paolo Pasolini” è stata pubblicata da "OttoNovecento", rivista letteraria dell'Università Cattolica di Milano, ed è tuttora disponibile sul portale spagnolo delle pubblicazioni scientifiche Dialnet. Da giornalista pubblicista ha lavorato per il Nuovo Corriere Viterbese e per diverse testate locali, inoltre è anche blogger e critico cinematografico. Ha collaborato con il festival teatrale dei Quartieri dell’Arte e con l’Est Film Festival, di cui è stato presidente di giuria. Come manager di marketing e comunicazione ha lavorato per STS Academy, agenzia di formazione di security e intelligence. Il suo racconto "Sala da ballo" è stato incluso nell’antologia del primo concorso letterario nazionale "Tracce per la Meta". Successivamente è stato premiato con il secondo posto al Premio Internazionale di poesia “Oggi Futuro” indetto dall’Accademia dei Micenei. È stato moderatore di conferenze di geopolitica dove sono intervenuti giornalisti di rilievo nazionale. L'animal fantasy "Due fratelli" è il suo primo romanzo, pubblicato con la casa editrice Lulu.com, a cui segue il romanzo di formazione "Come quando ero soldato". Collabora con il web magazine "L'Undici". Parla correttamente l'inglese, possiede elementi di francese e tedesco.

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