In questo film corale si mostrano le problematicità delle società multietniche ma soprattutto si scavano le dinamiche relazioni sociali, ricordando che le cose non sono semplicemente bianche e nere. Il risultato è un articolato affresco californiano che scardina certezze e allo stesso tempo sa scaldare i cuori, sbarazzandosi di ogni cliché del cinema americano.
Un’emozionante pellicola corale
“In una città vera si cammina. Sfiori gli altri passanti, sbatti contro la gente… Qui a Los Angeles non c’è contatto fisico con nessuno: stiamo tutti dietro vetro e metallo. Il contatto ci manca talmente che ci schiantiamo contro gli altri solo per sentirne la presenza.”

È chiaramente il regista e sceneggiatore Paul Haggis a parlare per bocca dell’investigatore Graham Waters (interpretato da Don Cheadle), offrendo la chiave di lettura del film già alla prima scena, riallacciandosi al titolo “Crash” a cui nella versione italiana è stata esplicitata la dicitura “Contatto Fisico”. Molte storie si intrecciano nelle 48 ore racchiuse tra la scena che inizia e chiude la pellicola, recuperando un genere che Oltreoceano ha in America Oggi, con la regia di Robert Altman e la sceneggiatura tratta da una raccolta di racconti di Jordan Carver, uno dei maggiori punti di riferimento. Più tardi lo stesso Haggis narrò che l’idea della sceneggiatura gli venne da un’esperienza personale: nel 1991, seguito a una prima proiezione di uno sceneggiato televisivo, si fermò a un blockbuster per prendere una videocassetta a noleggio, qui subì un furto dell’automobile da parte di due afroamericani. Il giorno seguente, riflettendo su chi fossero i due ladri e quali motivazioni avrebbero potuto avere, cominciò a buttare giù il soggetto di Crash. Come la pellicola del 1993 questo dramma che nel 2004 ha vinto il Premio Oscar come miglior film, migliore sceneggiatura originale e miglior montaggio, non risparmia nessuno. Ma se il primo lavoro è pervaso da un cinico pessimismo, qui si lascia entrare più di un raggio di luce. Entrambi i film hanno la seducente e idealizzata Los Angeles come teatro: se nel lavoro di Altman le storie si sfiorano senza intrecciarsi davvero, stavolta le vicende di molti personaggi sono reciprocamente legate, cosa assai improbabile per una metropoli di quasi quattro milioni di abitanti. L’atto di sospensione dell’incredulità che si chiede allo spettatore viene ripagato da scene ben congegnate in cui non mancano dei momenti poetici capaci di emozionare. Il “California Dreaming” cantato dai Mamas and Papas negli anni ’60, così come la luccicante Los Angeles da cartolina degli inarrivabili divi dello spettacolo, con tutte le rispettive illusioni e idealizzazioni, non trovano spazio in questo ruvido e vivido ritratto di una città popolata da gente comune, seppur di variegata estrazione sociale. Tra i tanti personaggi che si incontrano e scontrano si trovano così due poliziotti anglosassoni, due investigatori di cui uno afroamericano e una centroamericana approssimativamente apostrofata come messicana, una coppia di procuratori distrettuali bianchi rapinati da due amici afroamericani, un regista afroamericano e sua moglie e infine un negoziante iraniano che viene scambiato per arabo e che ha un alterco con un riparatore caraibico. Matt Dillon, Sandra Bullock e il già citato Don Cheadle sono solo alcune delle stelle di un cast che unisce celebrità a volti meno noti, in un felice abbinamento interpreti e personaggi.

La babele delle società multietniche
I problemi di instabilità e disordini emersi a seguito di repentine e massicce immigrazioni nel 2004, anno di realizzazione della pellicola, erano ancora di là di venire in Europa, ma da parte sua Los Angeles ha una delle popolazioni etnicamente più diversificate al mondo, frutto di un processo meno repentino ma di imponenti dimensioni. Significativo il fatto che la comunità ispanica rivaleggi per numero con quella WASP, i cui membri sono stati a lungo considerati “i veri Americani”. Pare addirittura che i “Latinos” siano diventati addirittura il più numeroso gruppo etnico della principale metropoli della West Coast, operando così un significativo sorpasso. Questo cozzare di culture, valori e visioni del mondo crea inevitabilmente problemi e incomprensioni che vanno oltre alle questioni originate da pregiudizi e razzismo. Un altro detonatore si tensioni consiste nelle grandi disparità economiche tra le classi sociali, che spesso ma non sempre si riverberano anche tra i vari gruppi etnici. Esemplare è la rivolta del 1992, che portò a gravi disordini in seguito al pestaggio subito dal tassista afroamericano Rodney King da parte di alcuni poliziotti.
Sotto la punta dell’iceberg
Grattando oltre queste seppur gravissime questioni emergono tematiche ancor più profonde. La società, almeno quella occidentale, non è soltanto divisa sulla base di censo, etnia e razza ma è sostanzialmente scissa. I legami tra le persone sono spesso strumentali, ognuno mira al proprio tornaconto e profitto, usando l’altro come scala. Non solo: le divisioni e i pregiudizi sono piegati alle esigenze finalistiche di salvare l’apparenza in linea con il politicamente corretto, come emerge chiaramente dal caso del procuratore distrettuale bianco, preoccupato del fatto che il furto dell’auto subito da due neri possa costargli i voti della comunità afroamericana. In ultima istanza nella collettività, appena oltre le ipocrisie e il perbenismo di facciata, si trovano ostilità di fondo e mancanza di solidarietà e scarsità di valori, permettendo di identificare in questi aspetti le cause profonde delle sue numerose storture.

Oltre i singoli punti di vista
Il film distrugge senza indugio la macchiettistica divisione manichea tra buoni e cattivi tanto in voga nei film commerciali hollywoodiani, mostrando invece come la realtà essere ben più sfaccettata di un fumettone, sbarazzandosi di stereotipi, mellifluo buonismo e comodo politicamente corretto. Si tratta di un esperimento riuscito che difficilmente sarebbe stato realizzato poi, negli anni dell’atteggiamento “woke” e dell’imposizione della cancel culture. Chi sembra buono o addirittura senza macchia può finire per compiere azioni ben peggiori di chi sembrava cattivo, bisogna dire non soltanto per colpa sua ma anche per pressione di un ambiente crudele e ipocrita, mentre chi sembrava cattivo può dimostrare lati positivi e addirittura trovare un non indifferente riscatto morale attraverso colpi di scena a volte spiazzanti. Gli avvenimenti vengono letti dalle prospettive di ciascuno, che sono frutto delle proprie esperienze e cultura, che contribuiscono a formare la bolla di credenze attraverso cui ognuno si rapporta al mondo esterno. La realtà quindi non è sempre come può apparire a una prima superficiale occhiata, in una differenza di narrazione che si pone oltre a quella di numerose pellicole commerciali che trattano il pubblico adulto come formato da bambini cresciuti da rassicurare, rendendo tutto fin troppo intuibile e scontato dopo pochi minuti di visione. Eppure in questo caotico marasma apparentemente senza fine, esplicitato dalla simbolica scena che apre e chiude il film che spiega la scelta del titolo, ci può essere spazio per una presa di coscienza. Questo avviene attraverso esperienze forti che obbligano i personaggi a squarciare il proprio velo di false convinzioni e acquisire una maggiore consapevolezza.

Conclusioni
Questa pellicola resta attuale e vibrante, capace di emozionare ma anche di far riflettere. Il regista ha il non scontato merito di tenere il bandolo della matassa, con un racconto attento e scandito da un ritmo agile quanto basta, e permettere allo spettatore di fare altrettanto, lasciandosi coinvolgere dalle vicende dei personaggi, tracciate in modo adeguatamente vivido e approfondito. Nonostante parte della critica abbia sottovalutato questo concitato dramma, Paul Haggis ha ricordato che si può trovare una via per raggiungere il grande pubblico in modo significativo, unendo estro e coinvolgimento.
