L’approvazione del decreto Sicurezza del Governo Italiano, cambia le carte in tavola su numerose questioni scavalcando il Parlamento che possono dare il là a una non sottovalutabile deriva autoritaria
L’antefatto e il contenuto in sintesi
Il 4 aprile 2025 il Governo Meloni ha approvato un nuovo decreto-legge che ripropone la maggior parte dei nuovi reati contenuti nel cosiddetto “DDL Sicurezza”. Il disegno di legge è stato sostituito da un Decreto Legge, cioè un atto normativo emanato direttamente dal Governo senza approvazione delle Camere, denunciando una deriva antidemocratica in atto. In parte sono stati rilievi mossi dal Quirinale, in sostanza sono statti confermate tutte le parti in cui si limita il modo particolare il dissenso codificando nuovi reati e trasformando di sanzioni amministrative in reati penali Il testo è composto 39 articoli che apportano diverse novità su materie che spaziano dall’occupazione di immobili, alla cannabis light, dal daspo urbano (cioè il divieto di accesso rivolto a una singola persona in specifiche aree) alla nuova fattispecie di reato legata al blocco stradale. In particolare, le proteste sindacali rischiano di essere criminalizzate come “interruzione di pubblico servizio” o “blocco stradale”, limitando drasticamente la libertà di riunione e di espressione dei lavoratori. Questo si traduce in gravi ricadute sulla possibilità di organizzare mobilitazioni a difesa di interessi generali e collettivi, come la difesa dell’occupazione e la risoluzione di gravi crisi aziendali. Ciò significa legittimare l’utilizzo del braccio duro per silenziare le voci discordanti anziché permettere di esercitare un sano diritto al dissenso, che dovrebbe essere momento essenziale della vita democratica.
Il blocco stradale
Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso.
Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.”
Questo quadro si contrappone al principio di proporzionalità delle pene: l’introduzione di sanzioni detentive per condotte non violente, che precedentemente non erano nemmeno classificate come reati, appare come un travalicamento dell’obiettivo di tutela dell’ordine pubblico.
Il controllo delle Università
L’Articolo 31 del Decreto Sicurezza impone alle Università italiane l’obbligo di fornire ai servizi segreti italiani dati personali e informazioni sull’orientamento politico di studenti, professori e ricercatori. Le richieste dei servizi segreti potevano essere respinte dai rettori, nel rispetto della privacy e dell’autonomia accademica. Con l’entrata in vigore del decreto, questa tutela di diritti essenziali decade: i rettori saranno legalmente obbligati a collaborare, esponendo la comunità universitaria a un controllo senza precedenti. La Legge in questione costituisce un’arma nelle mani del Governo, che può colpire voci di dissenso operanti in ambito accademico, impedendo la nascita di dibattito e pensiero critico proprio nei luoghi a essi destinati. Non solo: i rettori e i dirigenti universitari avranno a disposizione i reati introdotti dal decreto da utilizzare come facile pretesto per allontanare docenti o figure considerate scomode, magari colpevoli di criticare la linea politica dell’ateneo o di affrontare argomenti non allineati durante le lezioni.
Il giudizio della Cassazione
Niente meno che la Cassazione ha espresso riserve sulla costituzionalità del provvedimento, espresso da un giudizio contenuto nelle 129 pagine della relazione pubblicata dall’Ufficio del Massimario della Suprema Corte, Ente che ha l’incarico di studiare le novità normative. Il documento esprime una bocciatura senza appello del suddetto provvedimento. Viene imputata la scelta arbitraria di trasformare un DDL Sicurezza, all’esame del Parlamento da oltre un anno, in decreto legge, lasciando i contenuti pressoché invariati. Sulla medesima linea delle critiche già espresse da altri giuristi, la Cassazione pone l’accento sull’“evidente mancanza” dei presupposti di “straordinaria necessità ed urgenza” imposti dalla Costituzione, dato che “nessun fatto nuovo è occorso tra la discussione alle Camere del DDL sicurezza e la scelta trasformarlo in un decreto legge dal medesimo contenuto”. Inoltre, viene denunciata la “disomogeneità” dei contenuti della legge, esprimendosi su settori molto diversi, e l’abuso della decretazione d’urgenza in materia penale. Nel merito, le criticità riguardano quasi tutti i contenuti del provvedimento. Forte la presa di posizione sul cosiddetto “scudo” ai servizi, la norma che consente agli agenti sotto copertura di dirigere e organizzare associazioni terroristico-eversive senza commettere reato: si tratta, sostiene il Massimario, di “un assoluto inedito, posto che la direzione e organizzazione delle predette associazioni è fenomeno ben diverso, più grave e più pericoloso rispetto alla già sperimentata possibilità di “infiltrazione” – le “ordinarie” operazioni sotto copertura – giustificabile al livello di mera partecipazione. La scriminante potrebbe apparire sproporzionata – se non addirittura disfunzionale – rispetto alle esigenze da perseguire e potrebbe suscitare dubbi di illegittimità costituzionale, nella misura in cui sembra consentire l’organizzazione e direzione di associazioni vietate ai sensi dell’articolo 18 della Costituzione”. I pericoli di questo passaggio sono stati denunciati dall’associazione dei familiari delle vittime delle cosiddette “stragi di Stato”. Sulla possibilità di far scontare la pena in carcere alle detenute incinte o madri di bambini sotto un anno di età, la relazione cita un commento del celebre penalista Emilio Dolcini secondo cui la scelta è “una patente violazione dei principi costituzionali di tutela della maternità e dell’infanzia” e “di umanità della pena, tanto più in considerazione delle condizioni in cui versano le carceri italiane e dei pochi posti disponibili nei soli quattro istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam)”. Assume cruciale importanza la presa di posizione sulla trasformazione da illecito amministrativo a reato del blocco stradale, punibile da due e sei mesi. In questo modo, si legge, si attribuisce rilevanza penale “a comportamenti che molto spesso sono costituiti da riunioni pacifiche e atti di resistenza passiva, con l’effetto di incidere profondamente sull’attività di pubblica manifestazione del dissenso”. Nello stesso decreto, inoltre, si prevede che il nuovo reato di rivolta in carcere possa realizzarsi anche attraverso atti di resistenza passiva: un’equiparazione “aberrante” secondo gli studiosi del Diritto che si sono espressi, in quanto finisce per incriminare “la mera disobbedienza”, ossia “ogni atto di ribellione non connotato da violenza o minaccia, quali, ad esempio, il rifiuto del cibo o dell’ora d’aria”.

Considerazioni finali
Il Decreto riporta per l’ennesima volta in auge la diatriba più vecchia del mondo tra libertà e sicurezza, laddove quest’ultima pare il grimaldello per erodere la libertà dei cittadini, con pesanti ricadute non solo sulla libertà d’espressione ma anche per altri diritti fondamentali. Il rischio è un pericoloso passo in avanti verso una svolta oppressiva e autoritaria, facendo venire meno un pezzo importante dello Stato di Diritto. La Rivoluzione Francese, che si considera comunemente l’inizio della Contemporaneità, ha legittimato il diritto di resistenza attraverso la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che include la resistenza all’oppressione come diritto naturale e imprescrittibile, mentre la Costituzione mai applicata del 1793 riconosceva anche il diritto all’insurrezione. Si parlò di diritto alla resistenza anche di nelle discussioni che portarono alla promulgazione della Costituzione Italiana. Significativo che durante la preparazione della Costituzione Italiana nel 1947 il deputato Giuseppe Dossetti aveva proposto, che nel testo figurasse un articolo che recitava: «La resistenza individuale e collettiva agli atti del potere pubblico che violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti da questa costituzione è un diritto e un dovere dei cittadini». Questo atto governativo si inquadra nella progressiva e costante svolta autoritaria dell’Occidente, i cui vertici dimostrano crescente desiderio di controllo e accentramento, che fanno ricordare da vicino le previsioni di alcuni romanzi distopici del XX secolo.
Vivere in democrazia non significa soltanto esercitare fattivamente il diritto di voto, ma c’è un altro elemento fondante: il diritto di dissentire, di opporsi a decisioni dello Stato reputate ingiuste e in contraddizione con i suoi principi., senza subire ripercussioni. Questo ovviamente non significa sottrarsi al rispetto della cittadinanza, è fondamentale che ognuno possa esprimere le proprie idee anche se queste sono aperto dissenso con il proprio Governo. Senza il rispetto dell’espressione del proprio pensiero, e quindi anche del proprio dissenso, non si può avere vita democratica.
Riferimenti
