Dopo la vittoria di “M il figlio del secolo” (Einaudi) di Antonio Scurati nello Strega 2019 molti pronosticavano per la vittoria finale dello Strega 2020 un vincitore diverso;
forse localizzato tra i più giovani e in quei settori più freschi della narrativa.
Rispetto all’anno scorso e alla vittoria di Antonio Scurati soffiata per la sorpresa di molti a Marco Missiroli (autore del romanzo “Fedeltà”, Einaudi)
la sensazione è stata tuttavia quella di una competizione più morbida.
Veronesi è partito favorito ed è arrivato vincitore, in una linearità di aspettative alla fine non disattesa e quasi mai in discussione in tutto l’arco di tempo di uscita della dozzina prima e della cinquina poi.
Per quest’anno è venuto meno a quanto pare lo strapotere Einaudi nel “feudo” dello Strega.
Anche Mondadori ha dato l’impressione di interpretare la competizione in maniera diversa,
non trattando questo prestigioso premio secondo le strategie di rivalutazione dei propri flop, come la storica casa editrice è solita fare, bensì giocandosela a viso aperto.

Il Colibrì (S. Veronesi, Nave di Teseo)
Esiste in natura un meccanismo di regolazione della temperatura corporea chiamato “Effetto Doppio Vetro” che viene attivato
dai volatili, trovando grande efficacia soprattutto in quelli di piccola taglia come i Pettirossi o, appunto il Colibrì.
Questo stratagemma biologico adattivo viene usato a fini di termoregolazione e di difesa dal freddo. Potremmo dire che il
romanzo di Sandro Veronesi applica su se stesso un effetto “Doppio Vetro” simile a quello degli uccelli esprimendolo nel
contrasto nella caratterizzazione del suo protagonista Marco Carrera.
Tanto vigile e perturbato dal dolore internamente quanto appiattito nei suoi comportamenti esteriori.
Indiscutibile è il fatto che Il Flusso d’un dramma irreparabile attraversi Marco Carrera.
Lo svolgimento della storia si esprime in una ordinaria – per quanto dolorosa – vicenda umana raffigurante la vita di tutti i terrestri , ossia:
un’inesorabile sequenza di lutti e rinunce sino alla perdita di se stessi e la morte, la quale si pone a contrasto con una
sovrasviluppata visione interiore del protagonista.

Lo sviluppo del dramma
Non possiamo mancare di considerare che tuttavia il tono drammatico, non diversamente quasi da ciò che scaturirebbe da
Charlotte Brontë, sia protagonista, finanche ingombrante.
Ma forse lo smarrimento che il volo di questo colibrì rischia veramente non risiede tanto nella possibile scomparsa nei grigi e
melanconici cieli britannici della Brontë, quanto negli abissi dell’ultra-determinismo di Pasternac.
L’autore fiorentino riesce nelle difficoltà di una sinossi del genere a gestire la mole drammatica attraverso una tessitura capillare volta a distorsioni temporali e strutturali,
espresse ad esempio in lettere, note di ricordo, SMS, riuscendo a dare agilità alla pesantezza plumbea di una storia basata sull’assorbimento del dolore ed evitando quindi
la trasformazione del Colibrì in un pachiderma, sui pesanti passi della Tragedia.

Fasi conclusive
Tutto però si sgretola negli sviluppi finali.
L’epilogo de “Il Colibrì” mostra pedissequamente ciò che è stato ribadito per tutto il corso del libro.
La ricerca tra gli eccessi drammatici che sotto certi aspetti avevamo ammirato diventa un nichilismo necrofilo della tragedia
che forza la naturale linea narrativa.
Lo sviluppo finale sembra patire un eccesso nella ricerca “posturale”, quella d’un romanzo che non accetta compromessi, ma
l’effetto che emerge alla fine è diverso, ovvero quello di una svolta conclusiva pretestuosa e ridondante.
Alla morte di Marco, il suo spirito in forma di Colibrì si sarebbe potuto posare a Thornfield Hall e andare a trovare Jane Eyre, o
in qualche fredda via di Mosca per inseguire il fantasma di Yurij Zivago.
No. Purtroppo riesce soltanto a posarsi sul davanzale della finestra di Ferzan Ozpetek, che, fortunatamete è ancora in vita.