Sogno americano: il concerto live eseguito da Chomsky e Springsteen

Sogno americano: il concerto live eseguito da Chomsky e Springsteen

Cantano a loro modo il sogno americano, le due icone della cultura popolare statunitense: Noam Chomsky e Bruce Springsteen. Lo fanno a loro modo, l’uno sfruttando il talento della retorica politica e l’altro quello del rock. L’uno nel campo della sociologia, l’altro in quello della musica. Entrambi figli di un’America che tanto promette ma poco crea riguardo a quelle condizioni necessarie perché simili promesse possano concretizzarsi in progetti sociali tangibili.

Da entrambi emerge un’amara critica per quel neoliberismo che, sviluppatosi al suo massimo grado con l’amministrazione di Ronald Reagan negli anni ’80, ha posto demagogicamente lo Stato come nemico del popolo. Nel suo celebre intervento di insediamento alla Casa Bianca Reagan proclamava:

 «Nella crisi presente,

il governo non è la soluzione al nostro problema;

il governo è il problema».

Quel metaforico lancio della “Nuova Frontiera” di Ronald Reagan è forse quanto di più populista l’America e il mondo abbiano mai ascoltato in un discorso. Noam Chomsky in una famosa intervista rilasciata nell’arco di quattro anni, ha parlato del sogno americano, come di quella promessa di poter realizzare qualsiasi desiderio si abbia. Nasci povero e lavorando sodo puoi diventare ricco. Noam Chomsky parte raccontando la storia della sua famiglia, una storia di povertà e sofferenza che lo ha visto, se pur piccolissimo, protagonista del periodo della Grande depressione del’29 con quella speranza che nutriva la sua famiglia di poter vedere la propria condizione de evolversi in positivo. In “Requiem For a Dream”, Chomsky parla di come gli “Iper ricchi“, all’incirca l’1 per cento della popolazione statunitense, generino quella disuguaglianza corrosiva e dannosa per la democrazia che è, per sua natura, incompatibile con la promessa della mobilità sociale propugnata dal sogno americano che visse Chomsky fin da quando era giovanissimo.

Ronald Reagan non è stato l’inventore del sogno americano, egli lo ha estremizzato affermando quello che il popolo voleva sentirsi dire. Il primo rappresentante dello Stato che affermava pubblicamente, dopo essere stato eletto, che lo Stato è il nemico numero uno per il popolo americano. Un discorso demagogico che ha annebbiato la mente delle persone creando la convinzione che “Si, ho votato la persona giusta, egli è dalla mia parte”. Gli elettori di allora si sono dimenticati che chi pronunciava simili parole era in prima persona lo Stato ed aveva il potere di indirizzarne l’operato verso l’affermazione di quelle condizioni in grado di realizzare concretamente il sogno americano.

Ecco la logica della distrazione, arma principale di una politica populista che afferma quanto è condiviso ma non lo concede a mezzo della creazione di quelle condizioni essenziali perché il bene sociale possa concretamente realizzarsi. Alla base del sistema, individua Chomsky nel suo libro “Ottimismo malgrado tutto”, vi è la concentrazione di ricchezza che a sua volta genera potere e questo è il meccanismo a fondamento del sistema elettorale americano che, nonostante tutto, si professa come democratico. Chomsky parla della democrazia come della titolarità del potere decisionale spettante al popolo il quale, eleggendo i propri rappresentanti, si aspetta che questi agiscano in linea con i propri interessi socialmente condivisi. E’ questo il senso della democrazia, ma come è realizzabile in un sistema elettorale dagli elevatissimi costi di propaganda politica? E’ inevitabile che una coalizione, per poter vincere, debba legarsi ad istituti privati in grado di generare ricchezza, quindi potere, quindi vittoria alle elezioni.

Non è dunque possibile, per incompatibilità fisiologica, che un sistema di governo possa essere realmente democratico quando è vincolato ad interessi di potere e ricchezza. Quest’ultima diviene la parola chiave e non, come dovrebbe invece essere, la volontà popolare. In questo contesto è demagogico e populista un discorso che designa lo Stato come nemico quando a pronunciarlo è qualcuno che è salito al potere per sfruttare questo meccanismo di ricchezza per ottenere potere. Ottenuto il potere politico i partiti, o i loro capi, faranno leggi non per il popolo, ma per alimentare quel meccanismo di ricchezza in grado di dargli ulteriore potere o di consentirne il mantenimento. 

Si tratta delle lobby, quei gruppi di pressione che negoziano con il potere politico le politiche pubbliche (issues). Decisioni che metteranno al primo posto sempre le multinazionali e le organizzazioni in grado di generare ricchezza, poiché la ricchezza è alimento per il mantenimento del potere. In un sistema così concepito il sogno americano non è attuabile perché è richiesto da quella classe sociale che necessita della ricchezza e non che è in grado, come serve invece alla classe politica, di produrla. 

Da una prospettiva più artistica Bruce Springsteen parla con il linguaggio del rock, ma racconta la stessa amara delusione della promessa avanzata dal sogno americano. Lo fa parlando della sua New Jersey fatta di fabbriche e lavoratori sottopagati. Di gente che lavora sodo nella speranza di conquistare un futuro migliore per i propri figli, che spera facciano una vita migliore di quella del loro padre.

 

“…Sono andato giù nella valle dove, caro signore, fin da giovane ti insegnano a rifare quello che ha fatto tuo padre.”

Tratto da TheRiver, Bruce Springsteen

 

“La mattina presto suona la sirena della fabbrica, l’uomo si alza dal letto e si veste,l’uomo prende il portapranzo e si avvia nella luce del mattino.

La vita, la vita, la vita di lavoro.

[…] Fine del giorno, la sirena grida, gli uomini escono dai cancelli con la morte negli occhi…”

 “Factory”, dall’album The River, Bruce Springsteen.

 

Sandro Portelli in “Badlands” parla di come Springsteen sia stato la colonna sonora, da più di quarant’anni, della speranza di tre generazioni di realizzare il sogno americano. Una voce southern che proviene da qualcuno che ce l’ha fatta, ma in cui traspare al contempo l’amarezza della straordinarietà del proprio successo. Cantando la consapevolezza di quanto quel sogno americano sia impossibile per i più. Bruce Springsteen ha realizzato quel sogno americano, ma lo ha fatto per caso, per fortuna e di questo parla con toccante consapevolezza nelle sue canzoni popolari. E’ forse proprio questa presa di coscienza circa la difficoltà e l’impossibilità per la gente comune di fuggire dal proprio destino, che lo porta ad essere così empatico agli occhi di quell’individuo che non vede la mobilità sociale come un qualcosa alla sua portata.

born in the usa
Born in the USA, copertina vinile , 4 giugno 1984

A prima vista, ad esempio, “Born in the U.S.A” sembra un inno al patriottismo di Reagan, ad unirsi attorno alla bandiera a stelle e strisce per chiamare il popolo all’azione. Sembra una celebrazione allo “Zio Sam”, è invece un’ironia, una denuncia, una presa in giro per quello Stato che crea aspettative per il sogno americano senza fondare le basi concrete per realizzarlo e renderlo alla portata di tutti. 

“La rischiosa scommessa di Bruce Springsteen

è proprio quella di affidare un articolato messaggio di denuncia a un mezzo di comunicazione

che sta dentro l’universo del consumo

e risponde a quelle grammatiche dell’ascolto”.

Sandro Portelli, “Badlands: Springsteen e l’America, il lavoro e i sogni”, p.77

L’etnomusicologo Diego Carpitella parla di etnocentrismo della percezione, per definire quello stato mentale nel quale siamo pronti a ricevere i messaggi interpretandoli con il filtro della nostra formazione culturale. In un’America annebbiata dal patriottismo guerrafondaio “Born in The U.S.A” venne paragonata ad un inno sciovinista e Springsteen divenne un’icona alla Rambo. Proprio in quegli anni in cui Reagan lanciava la sua “Nuova frontiera” per il Paese. In quell’isterismo patriottico la copertina di “Born in The U.S.A” parla di un uomo che guarda alla bandiera americana con la fierezza di un marine.

Quella copertina è invece il simbolo del lavoratore stanco che torna di notte dalla fabbrica e guarda alla bandiera con l’amara delusione di un sogno americano mai raggiunto, ma con la speranza di poterlo ottenere per i suoi figli. Sulla copertina di “Born in The U.S.A” si vede uno Springsteen di spalle che guarda alla bandiera. Un figlio deluso che guarda al sogno americano come ad una promessa mai mantenuta dal suo Paese, nonostante nel suo caso questa si sia realizzata al massimo grado.

In uno dei suoi discorsi nel New Jersey, pronunciato nel 1984, Ronald Reagan fu il primo a fraintendere il senso di “Born in the U.S.A”, acclamando Springsteen come il paladino del patriottismo americano, il Rambo pronto ad incitare il suo pubblico a perseguire il Destino Manifesto degli Stati Uniti d’America. 

“Possiamo essere pessimisti,darci per vinti e quindi lasciare che accada il peggio. Oppure possiamo essere ottimisti, cogliere quelle opportunità che certamente esistono e in questo modo cercare di fare del mondo un posto migliore. Non c’è altra scelta.”

Noam Chomsky nell’intervista rilasciata a C.J.Polychroniou.

Springsteen, come Chomsky, guarda alla bandiera con l’amara delusione dell’intellettuale che comprende i mali della società in cui vive e usa le sue armi per aprire gli occhi alla gente, per trasmettergli quegli strumenti in grado di mantenere viva la speranza in un futuro migliore. Puoi farlo con il Rock n’ Roll, puoi farlo con la dialettica dell’agone politico, puoi farlo con i sorrisi e le parole, puoi farlo con l’amore. Quello che è importante è che, per citare il celebre sociologo e politologo Robert Reich, tu lo faccia divertendoti.

Bibliografia:

  • Alessandro Portelli, “Badlands Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni,”Donzelli ed.,2015, Roma
  • Noam Chomsky e C.J. Polychroniou, “Ottimismo (malgrado tutto)”,Ponte alle grazie ed.,20018,Padova
  • Documentario:Noam Chomsky:“Requiem for American Dream”
  • Robert Reich,“Come salvare il Capitalismo”,Fazi Ed., Roma.
  • Sole 24h, “Stato come nemico” in un articolo di Gennaro Sangiuliano, 21 Aprile 2013, https://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-04-21/stato-come-nemico-082034.shtml?uuid=Ab95nApH
Capitalismo Robert Reich
Robert Reich autore del testo e documentario Netflix “Come salvare il capitalismo”

 

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Alessandro Gatti

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