Il futuro dell’Unione europea e le contraddizioni della politica di Obama

Il futuro dell’Unione europea e le contraddizioni della politica di Obama

Gli errori di Obama: le regole di un gioco che, forse, sta cambiando

Quel processo d’integrazione europea, si sa, ha integrato ben poco e ben poco può dirsi europeo. Esso è stato, nella realtà dei fatti, una nuova forma di colonialismo da parte degli Stati Uniti. Una panacea contro il dilagare del comunismo durante la guerra fredda e, al “termine” di questa, sempre che possa dirsi terminata, uno spunto da parte della Nato per saziare le proprie politiche d’allargamento ed estendere la sua influenza là dove non avrebbe dovuto. In questo profumo di pseudo-integrazione assistiamo all’illusione e pretesa, da parte dei filoeuropeisti, di voler assimilare due sponde europee a due diverse velocità; quella occidentale e quella dell’est. I Balcani, dopo essersi trovati parte della compagine sovietica, che omologò la loro identità attraverso l’assimilazione al blocco comunista, si ritrovano oggi a lottare per essere accolti in un altro blocco che il più delle volte non li riconosce Europa pur volendoli, almeno a parole, nell’Europa. Se questa Unione vorrà essere, come dice, realmente tale, dovrà superare il limite della sua interna distinzione centro-periferia ed ottenere il connubio di molteplici realtà identitarie tra loro eterogenee. Accanto a questa sfida un ruolo sempre più ambiguo della politica Usa: dall’approccio storico, volto a fare dell’Europa una colonia al servizio degli interessi statunitensi, alla nuova visone globale di Obama, remissiva e mascherata da politica di “soft power”.

Le periferie d’Europa: da malinconico riflesso coloniale a frammenti dell’ Impero sovietico smembrato

Come fu per Roma, così ogni altro glorioso Impero della Storia ha lasciato tracce della propria influenza nel divenire di quei popoli che ne fecero parte. Gli Stati dei Balcani e del Caucaso furono periferie già prima della sottomissione alla Grande Madre Russa, e lo sono oggi in riferimento all’Europa Unita. Il concetto di periferia va ricondotto, di solito, più che ad una connotazione geografica, ad uno stato di distanza dal centro in termini di prosperità e condizioni sociali. Nel caso dei Balcani, ma anche del Caucaso, il divario di prosperità c’entra ben poco dal momento che a star male, ad esempio sotto il regime sovietico, erano primariamente i Russi stessi.

Nell’ottica balcanica e caucasica, infatti, la connotazione centro-periferia va più che altro ricondotta ad una questione di chi, storicamente, abbia detenuto il potere e chi invece ne sia stato determinato. Per dirla alla Kaplan, nel caso balcanico e caucasico l’idea di periferia è da ricondursi a chi, all’interno di queste regioni, abbia potuto “decidere circa lo stato d’eccezione”. Parafrasando Norbert Kaplan, dunque, nell’ambito dell’Europa orientale e Sud-orientale ci sono stati Paesi che hanno potuto disporre di altri manipolandone ed alterandone l’identità. Ecco dunque come il concetto di periferia diventi una questione di natura identitaria: dove iniziano i Balcani e dove finisce il Caucaso? Fondamentalmente tutti i Paesi rientranti nella fascia balcanica fecero parte dell’Impero ottomano, ma a quest’ultimo va ricondotta pure una porzione di Caucaso; per l’esattezza la Crimea e la zona costiera dell’Ucraina, subito sopra il Mar Nero. Caucaso e Balcani sono stati poi ricompresi nell’Impero russo e contribuiranno a costituire, assieme alla Russia, il blocco sovietico. A livello etnografico e culturale questi paesi sono identificabili come zone di frontiera, non solo in riferimento all’Europa, ma guardando al mondo intero.

Da sempre si è trattato di territori identificabili come parte sottomessa di un Impero egemone e privi di una propria capacità d’espressione nazionale ed autodeterminazione. Originariamente fu la volta degli Armeni che, tra il 1915 ed il 1916 vennero deportati e sterminati dagli Ottomani. Successivamente ecco che fu la volta delle deportazioni forzose dei Russi in Polonia e in Ucraina. Lo stesso Stalin, infatti, attorno al 1918-1920, sfruttò i confini delle periferie del suo Impero come cuscinetto per un’ipotetica avanzata, e dunque minaccia, occidentale.  La questione dello spazio vitale è dall’alba dei tempi lo stress principale di ogni Impero che si rispetti.

La garanzia di solidi ed ampi confini fu tormento per i Romani, con le province galliche, lo fu per i nazisti con la folle ossessione per il Lebensraum, lo fu per i Francesi che eressero la linea Maginot e lo fu per la Russia sovietica che perpetrò deportazioni forzose di minoranze in varie zone al fine preciso di creare una maggiore diversificazione nazionale ed ostacolare il formarsi di un forte senso nazionale e identitario all’interno delle varie porzioni del blocco.

La finalità era duplice: potenziare l’elemento russo come fosse un vero e proprio collante e creare uno scudo contro i potenziali invasori. Questo approccio ha creato, in Ucraina ma anche nel resto dell’Est Europa, una forte eterogeneità etnica e linguistica. Ad essere mischiati erano anche altri popoli come ad esempio i cosacchi e già prima dell’avvento di Stalin.

Nel Settecento, per l’appunto, il ceppo etnico dei cosacchi cedette alla pressione russa e ne assunse usi, costumi, lingua per avere in cambio il mantenimento di una pseudo ed illusoria libertà. Anche il caso della Polonia dimostra questa condizione di precarietà dell’Est Europa. Questo Stato è configurabile come potenza europea fino al 1600, ma in seguito a disastrosi conflitti contro la Russia, la Svezia e l’Impero Ottomano, venne ridotta ad un cumulo di frammenti. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale la Polonia rientrerà nell’orbita russa divenendo anch’essa uno stato satellite sotto il controllo dell’orso sovietico. Con la Guerra fredda si assisterà ad una  ulteriore dimostrazione del fallimento degli intenti Occidentali, e degli Stati Uniti in prima linea, nel creare un ordine Europeo e, quindi, globale.

Fino alla Seconda Guerra Mondiale, infatti, la concezione di globalità era ristretta al limes europeo, ma l’idea d’Europa non c’era come non ci sta oggi, se non nei termini d’un continente degli stati occidentali. Nella fase successiva alla Seconda Guerra Mondiale i confini del mondo si estesero a nuovi scenari e di quegli scenari gli Usa si illusero che ne avrebbero per sempre controllato e gestito gli equilibri. In questo modo quel concetto tanto concreto, quanto ideale, di pace perpetua nel senso kantiano, non si seppe realizzare in Europa e non si poté estendere al resto del globo. Vi fallirono già prima gli Europei stessi, con la Restaurazione,  a Vienna nel 1814, e non ne saranno in grado gli Statunitensi con la Conferenza di Parigi un secolo dopo.

Un fallimento epocale, un destino inevitabile per quei figli orfani ai confini estremi dell’Europa geografica

L’Europa sud-orientale, la parte balcanica, venne a lungo considerata fuori dalla storia europea, eppure di quell’Europa farà parte quando rientrerà nelle logiche di un patetico revanscismo della politica statunitense del containment. Lo stesso dicasi per la parte più a nord, quella caucasica, alla vigilia del collasso del gigante sovietico. Zone senza anima se non quella dei colossi imperiali che, nel corso dei secoli, le avevano occupate e sottomesse. Paradossalmente fu proprio la Russia a divenire determinante nell’elaborazione di un senso di illusione identitaria poiché, prima con l’Impero degli zar poi nelle logiche del blocco, conferì ai Paesi dei Balcani e del Caucaso uno scopo: essi erano il corpo della grande Madre Russa.

Mano a mano che l’Urss si estenderà occupando lo spazio asiatico, vitale per la sua legittimità di dominio, si formerà la concezione di Eurasia e questa rappresenterà il vincolo maggiore per le mire di controllo degli Stati Uniti d’America. L’enorme fallimento Usa è stato infatti rappresentato dall’aver ritenuto immutabile quell’ordine fondato sulla propria egemonia indiscussa sul mondo. Se alla vigilia della guerra fredda fu possibile cristallizzare l’universo attorno ad un unico arbitro internazionale, oggi quest’arbitro deve tener conto del dinamismo in divenire della storia. Le vicende in Ucraina ne sono una prova schiacciante; esse mostrano che l’Unione Europea come la intesero originariamente gli Stati Uniti non è più applicabile in un mondo alla cui guida, interessi energetici ed economici, spingono sempre più ad Est.

Se ci chiediamo cosa dimostrano gli eventi di Kiev, intercorsi tra il 2013 ed il 2014 scorsi, non ci resta che appellarci all’oggettiva evidenza dei fatti: Janukovic mandò a monte degli accordi di libero scambio tra Ucraina ed Unione Europea a favore di una politica più vicina alla Russia, e perché?

Di fatto Putin ha mostrato che l’Orso russo è tornato e che gli Stati Uniti, assopitisi per anni sull’illusione del perdurare della loro egemonia, devono riconoscerne l’autorità.

Per mantenere la pressione su kiev Putin ha dimostrato di disporre di tre leve fondamentali: economica ed energetica, le numerose etnie russe presenti in tutta la corona dell’estremo Est dell’Ucraina, e infine la leva militare che con la Crimea ha dato la sua dimostrazione di credibilità.

Putin ha mostrato che la Russia può riprendersi il suo ruolo sulla scena internazionale ed è disposto a farlo a caro prezzo. Per ora quello che Unione Europea e Stati Uniti hanno ottenuto dalle sanzioni contro la Russia è stato di riavvicinare Putin al nemico storico cinese. Il leader russo è stato infatti disposto a concludere con i cinesi un accordo sul gas ad un prezzo decisamente svantaggioso dal punto di vista economico, con il solo obiettivo di dare una prova di forza a livello internazionale di quella che è la posizione geopolitica della Russia. L’ascesa di un compatto fronte euroasiatico è sempre più verosimile, mentre va profilandosi sempre più fantascientifico il perdurare del ruolo di super poliziotto Usa.

Il fatto che la guerra fredda non sia mai cessata è testimoniato dal revanscismo del confronto tra i due colossi di cui l’uno, quello più ad oriente, sta vincendo secondo il suo stile. Il giorno dell’annessione della Crimea Putin pronunciava al Cremlino parole dure contro gli Stati Uniti riportando alla memoria gli eventi dell’espansione ad Est della Nato.

Stiamo parlando di Partnership for peace (pfp), nel 1994,  che altro non fu se non l’ennesima rivisitazione in chiave statunitense del principio di Tacito dell’ “ubi solitudinem faciunt pacem appellant”. Con la scusa della pace gli Stati Uniti spinsero l’Alleanza atlantica là dove non avrebbero dovuto. Washington credette di essere così forte e inviolabile da poter disporre dello spazio del suo rivale come fosse casa propria. La Russia si sa, a tempo debito, pareggia sempre i conti.

Nel cammino  stesso della Nato gli Stati Uniti hanno commesso l’errore enorme di concepirla come un’alleanza militare difensiva, ma di trasformarne la politica in offensiva. Soprattutto con pfp la Nato ha destabilizzato e moltiplicato il numero degli Stati falliti, con la presunzione di poterli ricomprendere sotto la propria influenza. Questa politica di aggressiva arroganza è stata poi estesa indirettamente all’Unione Europea.

Conclusioni: con Barack Obama il futuro degli Usa sembra essere quello di negare se stessi

Questi ultimi anni di presidenza Obama hanno mostrato al mondo una sorta di presa di coscienza storica per gli Stati Uniti: alla Superpotenza non sempre conviene porsi al centro dell’attenzione mondiale. Obama ha assunto un atteggiamento in linea di massima positivo, ma pericoloso per la credibilità della sua Nazione. Il leader hawaiano ha compreso dalla Storia la fondamentale lezione che lasciarsi trascinare in tutti i conflitti mondiali “lanciando bombe per dimostrare di essere i più forti” non è sempre l’opzione di scelta vincente.

In una lunga serie di interviste rilasciate al national correspondent del periodico statunitense “The Atlantic”, Jeffrey Goldberg, Obama ha affermato di voler impostare la sua politica estera secondo un’ ottica realista e internazionalista. Il presidente Usa si definisce un realista in quanto consapevole “che gli Stati Uniti non sono in grado di salvare, sempre e comunque, tutti gli Stati del mondo dalla loro miseria”. In quanto all’internazionalismo di Obama questo sarebbe ravvisabile nel suo atteggiamento di apertura verso le Organizzazioni sovranazionali e le norme internazionali.

A questo punto viene  chiamata in causa la coerenza. Sicuramente questo atteggiamento è positivo, ma diviene negativo nel momento in cui vengono fatte delle promesse e poi non vengono mantenute. La questione siriana ha dimostrato che il Medio Oriente non conviene più alla politica e alle finanze statunitensi, ma ha rappresentato per il Presidente Obama un’occasione per perdere consensi all’interno del proprio gabinetto e credibilità difronte ai suoi alleati. Sostanzialmente Obama ha mobilitato tutto il mondo occidentale preparandolo ad un attacco contro Assad per poi tirarsi indietro il giorno prima.

Più che di Soft power converrebbe parlare di indecisione, paura, inspiegabile tentennamento. Questi aggettivi, sicuramente non positivi, sono il risultato di come gli Stati Uniti di Obama sono apparsi al mondo che da loro si aspettava, come sempre, che andassero fino in fondo.  Quello che Obama ha poi detto al “The Atlantic” è che nelle sue logiche di politica estera vede posto per un’Europa autosufficiente. Ma come può un continente, figlio della catastrofe di due Guerre mondiali, svegliarsi una mattina e ritrovarsi capace da solo di autodeterminarsi? Per come gli Stati Uniti hanno impostato le logiche della loro politica dopo la Seconda Guerra mondiale l’Europa si è trovata dipendente dalla loro protezione.

La questione della Libia è stata galeotta dell’incapacità dell’Europa di poter gestire da sola la sua politica estera. Accanto a cotanta contraddittoria controtendenza statunitense, sta la convinzione pericolosa di Obama che la Russia sia uno Stato prossimo al fallimento. La Russia di Putin è stata in grado di dimostrare, unica fra tutte, un’azione decisa contro la minaccia marcata IS, è stata l’unica che ha mostrato al mondo intero che può riprendersi la Crimea. Una Nazione che è stata disposta a svendere il proprio gas a quella stessa Cina che Obama si illudeva di poter includere nelle sue dubbie, nonché poco credibili, strategie di politica estera.

attraverso il “pivot to Asia” Obama pensava di preparare il futuro degli Stati Uniti a quando l’ascesa cinese sarebbe al culmine dei suoi fasti. Il problema cardine di questa strategia, se così si può chiamare, è che il leader della Casa Bianca pensa ancora di poter escludere la Russia, non solo dall’Europa, ma anche dall’Asia. Neanche a farlo apposta assistiamo ad un Obama che afferma in privato,  davanti al giornalista dell’Atlantic, Jeffrey Goldberg ,che la cosa più importante dopo Bush è quella di “non fare cazzate”, poco dopo aver gettato la Cina nelle braccia della Russia.

Affermare di non voler fare “cazzate” e ritenere possibile, al contempo, di avviare una politica estera incentrata sui rapporti asiatici, escludendola Russia, sembrano non essere due concetti che vanno d’accordo. Le vicende ucraine hanno rappresentato per Putin un occasione di riaffacciarsi determinato sulla scena internazionale, di risanare i contrasti storici con la Cina e di allontanarla da una potenziale influenza a stelle e strisce.

Con la Siria Obama ha mostrato la sua inconsistenza, tanto dentro quanto fuori dai confini nazionali. Sullo sfondo di questo scenario l’Europa vede sempre più i suoi interessi legati all’economia euroasiatica mentre, nel contempo, i suoi alleati storici sembrano volerla abbandonare a se stessa.

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Alessandro Gatti

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